Nacque a Roma il 12 marzo 1754 da Giovanni Francesco Blengini e da Maddalena Gelpi.
Il padre, originario di Vicoforte, nei pressi di Mondovì, in età adulta assunse il cognome De Rossi da uno zio materno che, nominatolo erede, lo aveva chiamato a Roma per fargli amministrare il suo patrimonio.
Dopo aver compiuto gli studi secondari presso il collegio "Calasanzio" retto dagli scolopi, per volere del Padre, che desiderava avviarlo alla carriera legale, il D. seguì i corsi di giurisprudenza dell'Archiginnasio, dove poté tuttavia secondare la propria inclinazione verso le materie umanistiche frequentando le leziopi di lingua greca di G. C. Amaduzzi. Conseguita la laurea, iniziò l'attività forense, ma ben presto, nel 1774, in seguito alla morte improvvisa dell'amministratore dei beni dei De Rossi, egli fu obbligato a occuparsi esclusivamente del patrimonio e delle attività economiche della famiglia, in particolare di un'impresa commerciale, in cui il padre aveva investito la quasi totalità delle risorse con esiti quasi fallimentari. La nuova occupazione non solo gli permise di rivelare un grande talento per gli affari (riuscì ben presto a restaurare le sorti del dissestato patrimonio familiare), ma gli lasciò il tempo di dedicarsi alle sue più autentiche inclinazioni. Coltivò così Per diletto il disegno, l'architettura, ma, soprattutto, la letteratura. Accolto tra gli Arcadi, intorno al 1776, con il nome di Perinto Sceo, cercò di imporsi, con scarso successo, come poeta estemporaneo; ma, ben presto, alcune "picche letterarie" - non meglio precisabili - lo fecero allontanare per un breve periodo dagli ambienti dell'Accademia.
Nel 1778 sposò Clementina Ingami, dalla quale ebbe due figli: Teresa, che andò poi sposa a Enrico Caetani duca di Sermoneta, e Giovan Francesco, che sposò Luisa Carlotta di Borbone.
In seguito a dissidi familiari, nel 1781 abbandonò il commercio e la casa paterna e si associò ad Angelo Stampa in un'attività bancaria. Secondo il Vicchi, oltre che proprietario e direttore di una cassa di banco, il D. sarebbe stato autore di "rassegne commerciali" e di un Trattato di economia politica di cui non si è trovata traccia. All'inizio degli anni Ottanta egli ricominciò anche a frequentare l'Arcadia, segnalandosi per la stesura di alcuni mediocri "elogi". Tra i più noti quelli che seguirono il successo della rappresentazione dell'Antigone e del Saul alfieriani, letti nel "serbatoio" nel 1782 e 1783. Qualche interesse presenta anche l'Elogio dell'abate G. A. Taruffi (Roma 1786), apprezzato soprattutto per l'accurata ricostruzione biografica.
Profondo conoscitore dei fenomeni artistici (aveva già iniziato a formare alcune pregiate collezioni) secondo alcuni, nel 1784 il D. diede avvio - insieme con O. Boni - alla pubblicazione del Giornale delle belle arti e dell'incisione antiquaria, musica e poesia, ma la sua collaborazione a questo periodico rimase rigorosamente anonima. L'esperienza fu talmente positiva che l'anno successivo, su incitamento del principe A. Rezzonico, il D. fondò - insieme con il Boni - Le Memorie per le belle arti, un periodico mensile che rimase in vita fino al 1788. Il D. curò la parte relativa alla scultura e alla pittura, mentre il Boni firmò gli articoli dedicati all'architettura e all'incisione. L'iniziativa conobbe un grande successo e procurò al D. la benevolenza del segretario di Stato cardinale I. Boncompagni Ludovisi.
Chiusa l'esperienza giornalistica, si aprì un decennio fecondo per l'attività letteraria ed erudita del De Rossi. Nello stesso 1788 egli pubblicò a Roma la prima edizione delle Favole, contenente settanta componimenti in versi, spesso strutturati in forma dialogica secondo il modello rappresentato da La Fontaine.
La componente sentenziosa, tipica della moralità settecentesca, viene attenuata dall'assenza di pedanteria e stemperata in battute argute e garbate. Sempre "nei limiti di una mediocritas morale, in cui i valori medi della mentalità illuministica si fondono entro un'eredità più tradizionale di buon senso" (Binni, p. 532), il D. ha comunque l'avvedutezza di non permettere al proprio saggio moderatismo di assumere toni didascalici troppo evidenti.Un eguale "moderatismo" non si ritrova, invece, nelle Commedie, che, sebbene composte e pubblicate contemporaneamente alla Favole (il primo tomo era stato sottoposto al revisore veneto già nel 1789), sono caratterizzate da una vis polemica piuttosto graffiante. Avvicinatosi al teatro quasi per gioco - voleva infatti divertire figli e nipoti con delle recite improvvisate - il D. finì poi per pubblicare a Bassano tra il 1790 e il 1798 quattro tomi contenenti sedici commedie ripubblicate successivamente a Prato nel 1826.
In realtà la produzione del D. doveva essere molto più ampia; egli stesso in una lettera dell'11 maggio 1824 parla di altre quaranta pièces, le cui "orditure" erano già state intessute e di altre "sette o otto" di cui "esisteva sceneggiata qualche parte" (questi scritti inediti, e forse incompleti, risultano irreperibili).
Assimilata la lezione del Molière e del Goldoni, il D. premise alle Commedie un Ragionamento sul teatro comico che mostrava non poche originalità.
In antitesi con certa moda e, soprattutto, in polemica con C. Federici, il quale sosteneva che la trama della commedia dovesse essere strutturata in funzione del "colpo di scena" per assecondare il facile gusto del pubblico, il D. teorizzò la creazione di una "regolare e vera commedia", basata tanto per gli intrecci quanto per i caratteri "sulla fedelissima imitazione della riatura", nel pieno rispetto del "verisimile" e dell'unità di tempo. Nella pratica, però, non sempre il D. rispettò queste enunciazioni, lasciandosi in particolare tentare più d'una volta dalla moda della commedia larmoyante e romanzesca, che aveva tanto criticata. È il caso, ad esempio, de Il cortigiano onesto, una pièce seria, che, pur non molto originale, riscosse un notevole successo, tanto che, rappresentata al teatro Valle nel carnevale del 1791, fu replicata per sette sere. Anche in questi casi, comunque, il D. non rinuncia ai suoi obiettivi di moralista satirico. Il fine educativo -di chiara matrice illuministica - del suo teatro è infatti quello di "dipingere vizi e difetti" sotto un aspetto "ingrato e ridicolo", tale da suscitare nello spettatore "abborrimento ... e desio di emendarsene". L'aspetto più valido del teatro del D., che fa perdonare la sua "moralità" e sentenziosità, è dato dal fatto che esso non presenta modelli astratti ma dipinge "dall'interno" con grande efficacia e non senza passionalità un quadro desolato della decrepita società pontificia dello scorcio del secolo decimottavo, inaugurando così una tradizione che, passando attraverso G. Giraud, culminerà nel grande affresco sociale di G. G. Belli. Emblematiche in questo senso sono Il calzolaio inglese a Roma, Il maestrodicappella e La prima sera dell'opera, che, cariche di "romanità", sono originali e riusciti "scorci d'ambiente".
Volta a fustigare l'ormai decadente aristocrazia romana è anche la Galleria delle dame, una pettegola e graffiante satira che circolò, anonima e manoscritta, a partire dal 1790, e che viene attribuita al D. da V.M. Conti. Questa satira, strutturata su una serie di bozzetti, stigmatizza con toni audacemente polemici la condotta riprovevole di alcune "grandi darne" che, nell'estate del 1789, avevano partecipato insieme con i loro "cavalier serventi" a una festa notturna, organizzata dal marchese Zagnoni nella villa Barberini.
Anche se la paternità di questo scritto non può ritenersi sicura, è certo che la tendenza del D. a fustigare i costumi della buona società romana era talmente notoria da procurargli non poche inimicizie. Ad esempio, nelle Terzine a Perinto V. Monti, che di quel mondo era interessato cantore, scagliò contro di lui un'aspra invettiva, fondata su pettegolezzi di infimo ordine, soprattutto per prendere le difese della marchesa G. Sampieri Lepri legata al tesoriere pontificio, mons. Fabrizio Ruffo.
Nel 1790 l'ambasciatore portoghese A.D. de Souza Holstein, nel fondare a Roma la R. Accademia di Portogallo per le belle arti, nominò il D. direttore. In questo incarico il D. si impegnò particolarmente in un'opera di incoraggiamento dei giovani artisti, ai quali commissionò vari lavori, e nel frattempo consofidava la sua fama di intenditore d'arte, pubblicando opuscoli e articoli sulle opere di scultori e pittori quali A. Canova, V. Camuccini e G. Landi. Dal 1792 si dedicò anche alla biografia artistica, con la Vita di G. Pichler, in cui - lungi dall'indulgere alla celebrazione o a una superficiale aneddotica - univa alla precisione dei dati una notevole capacità di inquadramento storico dell'opera dell'artista studiato.
Del resto l'attitudine alla riflessione storico-critica era una costante della sua attività. Se non esiste traccia di un Trattato su l'arte drammatica (Roma 1790), attribuitogli da A. Manzi (confr. Enc. Ital., XII ad vocem), notizia forse desunta dal Vaccolini, che parla però di una non meglio precisata Storia del teatro (questo dato fu ripreso anche dal Carducci), un notevole interesse presenta invece il libro Del moderno teatro comico e del suo restauratore Carlo Goldoni, pubblicato nel 1794 a Bassano.
Nato dallo sviluppo di tre "ragionamenti" accademici letti in Arcadia, il D. vi traccia una compiuta storia della commedia dal XVI al XVIII secolo, nel tentativo di dimostrare come il teatro comico sia in realtà rinato in Italia solo con il Goldoni. Secondo lui, la commedia cinquecentesca - ad eccezione della Mandragola del Machiavelli - è priva di valore, in quanto strutturata troppo pedantemente sui modelli classici; quella secentesca, caratterizzata invece dalla esasperata ricerca della "novità", degenera irrimediabilmente in "deliri" e "stranezze dell'imaginazione". Solo nel Settecento lo scenario teatrale migliora: inaugurando un itinerario che poi divenne canonico, il D. analizzò le opere di quelli che egli considerava i "precursori" goldoniani, cercando di mettere in evidenza i limiti per cui essi non riuscirono a raggiungere un posto di rilievo nella storia del teatro. Con notevole intelligenza critica egli delinea poi il profilo dell'opera goldoniana, individuandone il maggiore pregio "nell'economica esposizione de' caratteri", grazie alla quale lo spettatore partecipa attivamente alla rappresentazione, scoprendo gradualmente la psicologia del personaggio. Mentre un'ottica senza dubbio cruscante, che risente di una formazione accademica e dei pregiudizi del purista, è quella che lo spinge a biasimare la scelta del dialetto, in particolare nel caso delle commedie "popolari", considerate "genere infimo, che veramente eguaglia l'antica tabernaria, se all'atellana non si avvicina" (ibid., p. 105). L'interpretazione del D., centrata sul rapporto uomo-commediografo, sull'esaltazione delle qualità umane dell'opera dell'autore veneziano, dava avvio al mito del Goldoni "buon papà" continuato per tutto l'800.
Nel 1795 vide la luce a Parma l'elegante edizione bodoniana degli Scherzi poetici e pittorici, che per la verità erano già stati pubblicati l'anno precedente a Roma in pochissime copie (oggi quest'edizione risulta introvabile); si tratta di brevi componimenti allegorici di carattere amoroso, in versi anacreontici, nella scia del gusto figurativo neoclassico, movimentati da vivaci personificazioni dei fenomeni della natura e della psiche (amorini). Questi graziosi quadretti, in cui si concreta la disposizione del D. al bozzetto, erano non a caso illustrati da numerose incisioni, dovute - secondo il Vaccolini - allo stesso autore (ma il Fasola ha rilevato che nella dedica degli Scherzi il D. aveva esplicitamente attribuito ad altri le illustrazioni ai testi).
Il mondo rappresentato negli Scherzi e in piena sintonia con il gusto di quello scorcio di secolo (pochi anni prima, nel 1788, il Goethe aveva pubblicato un componimento, Amorepittore di paesaggio, affine nel titolo e nel tema ad uno inserito nel volume del D.), che coniuga il culto della bellezza della natura e dell'arte con l'impegno moraleggiante: il D. usa di frequente le tonalità ironiche e talvolta amare della saggezza per ammonire l'uomo a ricordarsi della fugacità delle illusioni e della vita stessa, ma sa farlo con grande garbo, misura e gusto poetico, si da raggiungere risultati affatto gradevoli, che furono - ad esempio - apprezzati dal Leopardi, il quale nel 1828 si propose di scrivere scherzi "filosofici e satirici al modo del De Rossi" (Poesie e prose, a cura di F. Flora, I, Milano 1940, p. 706).
Durante la breve parentesi della Repubblica Romana, instaurata e sostenuta dalle armate francesi, il D., per le sue conoscenze della materia e della pratica finanziaria e per la sua qualità di laico dotato di un ricco bagaglio culturale (qualità non molto diffuse in un ambiente dominato dagli ecclesiastici), nel settembre 1798 fu nominato ministro delle Finanze in sostituzione di G. Bufalini. Egli accettò, ma accortosi di essere a capo di un ministero "agonizzante" privo di mezzi per affrontare la disastrosa situazione economica, caratterizzata dal continuo aumento dei prezzi e dalla carenza di risorse finanziarie ed alimentari, nel dicembre rassegnò le dimissioni. Secondo G. A. Sala, a queste egli sarebbe stato costretto dalle autorità francesi, che lo avevano accusato di "aver procurato di minorare le forti contribuzioni imposte ai nobili" (Diario romano degli anni 1798-99, a cura di G. Cugnoni, II, Roma 1886, p. 152).
Dopo questa parentesi politica il D. tornò a coltivare i suoi interessi di studioso, in specie di antiquaria, materia che costituì il campo privilegiato per gli ultimi vent'anni della sua attività. Socio dell'Accademia di S. Luca, divenne anche consigliere "perpetuo" dell'Accademia archeologica. Conteso dai salotti letterari, frequentò quello prestigioso di Maria Pizzelli, dove conobbe B. Odescalchi, E. Q. Visconti e C. Fea con il quale, nei primi anni dell'Ottocento, ebbe uno scambio epistolare (egli si firmò con lo pseudonimo di Antonio Zuccaro da Sacile) su questioni filologiche ed antiquarie, in parte pubblicato dal Giornale de' letterati di Pisa. Si distinse anche nel ruolo di intermediario nel commercio d'arte che nei primi decenni del secolo ebbe una forte espansione a Roma. In questi anni maturò la Vita di Angelica Kauffmann (Roma e Pisa 1810), che si segnala per il perfetto equilibrio tra l'informazione biografica, desunta dalla stessa pittrice cui lo legava una profonda amicizia, e l'acutezza e la misura del giudizio critico.
Membro corrispondente dal 1812 dell'Institut de France, nel 1816 fu nominato direttore dell'Accademia reale napoletana a Roma. Nel 1818 apparvero a Pisa gli Epigrammi, madrigali ed epitaffi, ultima espressione poetica del D., che, anche se composti nell'Ottocento, ricalcano nello stile e nel contenuto, ricco di tonalità satiriche, la precedente produzione settecentesca. Dello stesso anno sono alcune novelle, riunite poi da B. Gamba (Novelle, Venezia 1824), che si allontanano drasticamente dal consueto moralismo derossiano, ché, anzi, per il contenuto licenzioso e il linguaggio deliberatamente scurrile messo sulla bocca di una galleria intera di personaggi volgari, si riallacciano alla tradizione settecentesca che aveva avuto il suo maggior rappresentante nel veneziano Giorgio Baffo.
Frattanto nel 1823 era stato pubblicato a Roma il commento ai Vasi greci denominati etruschi…, un interessante scritto di antiquaria, che compie una minuziosa analisi delle pitture che decoravano 58 vasi greci appartenenti alla collezione del duca di Blacas d'Aulps.
Il D. morì a Roma il 27 marzo 1827 per improvvisa malattia e fu sepolto nella chiesa di S. Carlo ai Catinari.
(DBI, sub voce)
OPERE DISPONIBILI DI De Rossi Giovanni Gherardo
Nacque a Roma il 12 marzo 1754 da Giovanni Francesco Blengini e da Maddalena Gelpi.
Il padre, originario di Vicoforte, nei pressi di Mondovì, in età adulta assunse il cognome De Rossi da uno zio materno che, nominatolo erede, lo aveva chiamato a Roma per fargli amministrare il suo patrimonio.
Dopo aver compiuto gli studi secondari presso il collegio "Calasanzio" retto dagli scolopi, per volere del Padre, che desiderava avviarlo alla carriera legale, il D. seguì i corsi di giurisprudenza dell'Archiginnasio, dove poté tuttavia secondare la propria inclinazione verso le materie umanistiche frequentando le leziopi di lingua greca di G. C. Amaduzzi. Conseguita la laurea, iniziò l'attività forense, ma ben presto, nel 1774, in seguito alla morte improvvisa dell'amministratore dei beni dei De Rossi, egli fu obbligato a occuparsi esclusivamente del patrimonio e delle attività economiche della famiglia, in particolare di un'impresa commerciale, in cui il padre aveva investito la quasi totalità delle risorse con esiti quasi fallimentari. La nuova occupazione non solo gli permise di rivelare un grande talento per gli affari (riuscì ben presto a restaurare le sorti del dissestato patrimonio familiare), ma gli lasciò il tempo di dedicarsi alle sue più autentiche inclinazioni. Coltivò così Per diletto il disegno, l'architettura, ma, soprattutto, la letteratura. Accolto tra gli Arcadi, intorno al 1776, con il nome di Perinto Sceo, cercò di imporsi, con scarso successo, come poeta estemporaneo; ma, ben presto, alcune "picche letterarie" - non meglio precisabili - lo fecero allontanare per un breve periodo dagli ambienti dell'Accademia.
Nel 1778 sposò Clementina Ingami, dalla quale ebbe due figli: Teresa, che andò poi sposa a Enrico Caetani duca di Sermoneta, e Giovan Francesco, che sposò Luisa Carlotta di Borbone.
In seguito a dissidi familiari, nel 1781 abbandonò il commercio e la casa paterna e si associò ad Angelo Stampa in un'attività bancaria. Secondo il Vicchi, oltre che proprietario e direttore di una cassa di banco, il D. sarebbe stato autore di "rassegne commerciali" e di un Trattato di economia politica di cui non si è trovata traccia. All'inizio degli anni Ottanta egli ricominciò anche a frequentare l'Arcadia, segnalandosi per la stesura di alcuni mediocri "elogi". Tra i più noti quelli che seguirono il successo della rappresentazione dell'Antigone e del Saul alfieriani, letti nel "serbatoio" nel 1782 e 1783. Qualche interesse presenta anche l'Elogio dell'abate G. A. Taruffi (Roma 1786), apprezzato soprattutto per l'accurata ricostruzione biografica.
Profondo conoscitore dei fenomeni artistici (aveva già iniziato a formare alcune pregiate collezioni) secondo alcuni, nel 1784 il D. diede avvio - insieme con O. Boni - alla pubblicazione del Giornale delle belle arti e dell'incisione antiquaria, musica e poesia, ma la sua collaborazione a questo periodico rimase rigorosamente anonima. L'esperienza fu talmente positiva che l'anno successivo, su incitamento del principe A. Rezzonico, il D. fondò - insieme con il Boni - Le Memorie per le belle arti, un periodico mensile che rimase in vita fino al 1788. Il D. curò la parte relativa alla scultura e alla pittura, mentre il Boni firmò gli articoli dedicati all'architettura e all'incisione. L'iniziativa conobbe un grande successo e procurò al D. la benevolenza del segretario di Stato cardinale I. Boncompagni Ludovisi.
Chiusa l'esperienza giornalistica, si aprì un decennio fecondo per l'attività letteraria ed erudita del De Rossi. Nello stesso 1788 egli pubblicò a Roma la prima edizione delle Favole, contenente settanta componimenti in versi, spesso strutturati in forma dialogica secondo il modello rappresentato da La Fontaine.
La componente sentenziosa, tipica della moralità settecentesca, viene attenuata dall'assenza di pedanteria e stemperata in battute argute e garbate. Sempre "nei limiti di una mediocritas morale, in cui i valori medi della mentalità illuministica si fondono entro un'eredità più tradizionale di buon senso" (Binni, p. 532), il D. ha comunque l'avvedutezza di non permettere al proprio saggio moderatismo di assumere toni didascalici troppo evidenti.Un eguale "moderatismo" non si ritrova, invece, nelle Commedie, che, sebbene composte e pubblicate contemporaneamente alla Favole (il primo tomo era stato sottoposto al revisore veneto già nel 1789), sono caratterizzate da una vis polemica piuttosto graffiante. Avvicinatosi al teatro quasi per gioco - voleva infatti divertire figli e nipoti con delle recite improvvisate - il D. finì poi per pubblicare a Bassano tra il 1790 e il 1798 quattro tomi contenenti sedici commedie ripubblicate successivamente a Prato nel 1826.
In realtà la produzione del D. doveva essere molto più ampia; egli stesso in una lettera dell'11 maggio 1824 parla di altre quaranta pièces, le cui "orditure" erano già state intessute e di altre "sette o otto" di cui "esisteva sceneggiata qualche parte" (questi scritti inediti, e forse incompleti, risultano irreperibili).
Assimilata la lezione del Molière e del Goldoni, il D. premise alle Commedie un Ragionamento sul teatro comico che mostrava non poche originalità.
In antitesi con certa moda e, soprattutto, in polemica con C. Federici, il quale sosteneva che la trama della commedia dovesse essere strutturata in funzione del "colpo di scena" per assecondare il facile gusto del pubblico, il D. teorizzò la creazione di una "regolare e vera commedia", basata tanto per gli intrecci quanto per i caratteri "sulla fedelissima imitazione della riatura", nel pieno rispetto del "verisimile" e dell'unità di tempo. Nella pratica, però, non sempre il D. rispettò queste enunciazioni, lasciandosi in particolare tentare più d'una volta dalla moda della commedia larmoyante e romanzesca, che aveva tanto criticata. È il caso, ad esempio, de Il cortigiano onesto, una pièce seria, che, pur non molto originale, riscosse un notevole successo, tanto che, rappresentata al teatro Valle nel carnevale del 1791, fu replicata per sette sere. Anche in questi casi, comunque, il D. non rinuncia ai suoi obiettivi di moralista satirico. Il fine educativo -di chiara matrice illuministica - del suo teatro è infatti quello di "dipingere vizi e difetti" sotto un aspetto "ingrato e ridicolo", tale da suscitare nello spettatore "abborrimento ... e desio di emendarsene". L'aspetto più valido del teatro del D., che fa perdonare la sua "moralità" e sentenziosità, è dato dal fatto che esso non presenta modelli astratti ma dipinge "dall'interno" con grande efficacia e non senza passionalità un quadro desolato della decrepita società pontificia dello scorcio del secolo decimottavo, inaugurando così una tradizione che, passando attraverso G. Giraud, culminerà nel grande affresco sociale di G. G. Belli. Emblematiche in questo senso sono Il calzolaio inglese a Roma, Il maestrodicappella e La prima sera dell'opera, che, cariche di "romanità", sono originali e riusciti "scorci d'ambiente".
Volta a fustigare l'ormai decadente aristocrazia romana è anche la Galleria delle dame, una pettegola e graffiante satira che circolò, anonima e manoscritta, a partire dal 1790, e che viene attribuita al D. da V.M. Conti. Questa satira, strutturata su una serie di bozzetti, stigmatizza con toni audacemente polemici la condotta riprovevole di alcune "grandi darne" che, nell'estate del 1789, avevano partecipato insieme con i loro "cavalier serventi" a una festa notturna, organizzata dal marchese Zagnoni nella villa Barberini.
Anche se la paternità di questo scritto non può ritenersi sicura, è certo che la tendenza del D. a fustigare i costumi della buona società romana era talmente notoria da procurargli non poche inimicizie. Ad esempio, nelle Terzine a Perinto V. Monti, che di quel mondo era interessato cantore, scagliò contro di lui un'aspra invettiva, fondata su pettegolezzi di infimo ordine, soprattutto per prendere le difese della marchesa G. Sampieri Lepri legata al tesoriere pontificio, mons. Fabrizio Ruffo.
Nel 1790 l'ambasciatore portoghese A.D. de Souza Holstein, nel fondare a Roma la R. Accademia di Portogallo per le belle arti, nominò il D. direttore. In questo incarico il D. si impegnò particolarmente in un'opera di incoraggiamento dei giovani artisti, ai quali commissionò vari lavori, e nel frattempo consofidava la sua fama di intenditore d'arte, pubblicando opuscoli e articoli sulle opere di scultori e pittori quali A. Canova, V. Camuccini e G. Landi. Dal 1792 si dedicò anche alla biografia artistica, con la Vita di G. Pichler, in cui - lungi dall'indulgere alla celebrazione o a una superficiale aneddotica - univa alla precisione dei dati una notevole capacità di inquadramento storico dell'opera dell'artista studiato.
Del resto l'attitudine alla riflessione storico-critica era una costante della sua attività. Se non esiste traccia di un Trattato su l'arte drammatica (Roma 1790), attribuitogli da A. Manzi (confr. Enc. Ital., XII ad vocem), notizia forse desunta dal Vaccolini, che parla però di una non meglio precisata Storia del teatro (questo dato fu ripreso anche dal Carducci), un notevole interesse presenta invece il libro Del moderno teatro comico e del suo restauratore Carlo Goldoni, pubblicato nel 1794 a Bassano.
Nato dallo sviluppo di tre "ragionamenti" accademici letti in Arcadia, il D. vi traccia una compiuta storia della commedia dal XVI al XVIII secolo, nel tentativo di dimostrare come il teatro comico sia in realtà rinato in Italia solo con il Goldoni. Secondo lui, la commedia cinquecentesca - ad eccezione della Mandragola del Machiavelli - è priva di valore, in quanto strutturata troppo pedantemente sui modelli classici; quella secentesca, caratterizzata invece dalla esasperata ricerca della "novità", degenera irrimediabilmente in "deliri" e "stranezze dell'imaginazione". Solo nel Settecento lo scenario teatrale migliora: inaugurando un itinerario che poi divenne canonico, il D. analizzò le opere di quelli che egli considerava i "precursori" goldoniani, cercando di mettere in evidenza i limiti per cui essi non riuscirono a raggiungere un posto di rilievo nella storia del teatro. Con notevole intelligenza critica egli delinea poi il profilo dell'opera goldoniana, individuandone il maggiore pregio "nell'economica esposizione de' caratteri", grazie alla quale lo spettatore partecipa attivamente alla rappresentazione, scoprendo gradualmente la psicologia del personaggio. Mentre un'ottica senza dubbio cruscante, che risente di una formazione accademica e dei pregiudizi del purista, è quella che lo spinge a biasimare la scelta del dialetto, in particolare nel caso delle commedie "popolari", considerate "genere infimo, che veramente eguaglia l'antica tabernaria, se all'atellana non si avvicina" (ibid., p. 105). L'interpretazione del D., centrata sul rapporto uomo-commediografo, sull'esaltazione delle qualità umane dell'opera dell'autore veneziano, dava avvio al mito del Goldoni "buon papà" continuato per tutto l'800.
Nel 1795 vide la luce a Parma l'elegante edizione bodoniana degli Scherzi poetici e pittorici, che per la verità erano già stati pubblicati l'anno precedente a Roma in pochissime copie (oggi quest'edizione risulta introvabile); si tratta di brevi componimenti allegorici di carattere amoroso, in versi anacreontici, nella scia del gusto figurativo neoclassico, movimentati da vivaci personificazioni dei fenomeni della natura e della psiche (amorini). Questi graziosi quadretti, in cui si concreta la disposizione del D. al bozzetto, erano non a caso illustrati da numerose incisioni, dovute - secondo il Vaccolini - allo stesso autore (ma il Fasola ha rilevato che nella dedica degli Scherzi il D. aveva esplicitamente attribuito ad altri le illustrazioni ai testi).
Il mondo rappresentato negli Scherzi e in piena sintonia con il gusto di quello scorcio di secolo (pochi anni prima, nel 1788, il Goethe aveva pubblicato un componimento, Amorepittore di paesaggio, affine nel titolo e nel tema ad uno inserito nel volume del D.), che coniuga il culto della bellezza della natura e dell'arte con l'impegno moraleggiante: il D. usa di frequente le tonalità ironiche e talvolta amare della saggezza per ammonire l'uomo a ricordarsi della fugacità delle illusioni e della vita stessa, ma sa farlo con grande garbo, misura e gusto poetico, si da raggiungere risultati affatto gradevoli, che furono - ad esempio - apprezzati dal Leopardi, il quale nel 1828 si propose di scrivere scherzi "filosofici e satirici al modo del De Rossi" (Poesie e prose, a cura di F. Flora, I, Milano 1940, p. 706).
Durante la breve parentesi della Repubblica Romana, instaurata e sostenuta dalle armate francesi, il D., per le sue conoscenze della materia e della pratica finanziaria e per la sua qualità di laico dotato di un ricco bagaglio culturale (qualità non molto diffuse in un ambiente dominato dagli ecclesiastici), nel settembre 1798 fu nominato ministro delle Finanze in sostituzione di G. Bufalini. Egli accettò, ma accortosi di essere a capo di un ministero "agonizzante" privo di mezzi per affrontare la disastrosa situazione economica, caratterizzata dal continuo aumento dei prezzi e dalla carenza di risorse finanziarie ed alimentari, nel dicembre rassegnò le dimissioni. Secondo G. A. Sala, a queste egli sarebbe stato costretto dalle autorità francesi, che lo avevano accusato di "aver procurato di minorare le forti contribuzioni imposte ai nobili" (Diario romano degli anni 1798-99, a cura di G. Cugnoni, II, Roma 1886, p. 152).
Dopo questa parentesi politica il D. tornò a coltivare i suoi interessi di studioso, in specie di antiquaria, materia che costituì il campo privilegiato per gli ultimi vent'anni della sua attività. Socio dell'Accademia di S. Luca, divenne anche consigliere "perpetuo" dell'Accademia archeologica. Conteso dai salotti letterari, frequentò quello prestigioso di Maria Pizzelli, dove conobbe B. Odescalchi, E. Q. Visconti e C. Fea con il quale, nei primi anni dell'Ottocento, ebbe uno scambio epistolare (egli si firmò con lo pseudonimo di Antonio Zuccaro da Sacile) su questioni filologiche ed antiquarie, in parte pubblicato dal Giornale de' letterati di Pisa. Si distinse anche nel ruolo di intermediario nel commercio d'arte che nei primi decenni del secolo ebbe una forte espansione a Roma. In questi anni maturò la Vita di Angelica Kauffmann (Roma e Pisa 1810), che si segnala per il perfetto equilibrio tra l'informazione biografica, desunta dalla stessa pittrice cui lo legava una profonda amicizia, e l'acutezza e la misura del giudizio critico.
Membro corrispondente dal 1812 dell'Institut de France, nel 1816 fu nominato direttore dell'Accademia reale napoletana a Roma. Nel 1818 apparvero a Pisa gli Epigrammi, madrigali ed epitaffi, ultima espressione poetica del D., che, anche se composti nell'Ottocento, ricalcano nello stile e nel contenuto, ricco di tonalità satiriche, la precedente produzione settecentesca. Dello stesso anno sono alcune novelle, riunite poi da B. Gamba (Novelle, Venezia 1824), che si allontanano drasticamente dal consueto moralismo derossiano, ché, anzi, per il contenuto licenzioso e il linguaggio deliberatamente scurrile messo sulla bocca di una galleria intera di personaggi volgari, si riallacciano alla tradizione settecentesca che aveva avuto il suo maggior rappresentante nel veneziano Giorgio Baffo.
Frattanto nel 1823 era stato pubblicato a Roma il commento ai Vasi greci denominati etruschi…, un interessante scritto di antiquaria, che compie una minuziosa analisi delle pitture che decoravano 58 vasi greci appartenenti alla collezione del duca di Blacas d'Aulps.
Il D. morì a Roma il 27 marzo 1827 per improvvisa malattia e fu sepolto nella chiesa di S. Carlo ai Catinari.
(DBI, sub voce)